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Focus Sicilia – Se gli Stabili scoprono il “teatro di ricerca”

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Finalmente ci siamo: il direttore dello Stabile catanese, Giuseppe Dipasquale, in un comunicato in cui si informa che lo stesso è stato eletto come coordinatore del Comitato di azione costituito da P.L.A.Tea, fondazione che riunisce i Teatri Stabili, sembrerebbe mostrare attenzione per il teatro di ricerca. E per credere alla sue parole riportiamo parte del comunicato: «Gli Stabili sono obbligati all’allestimento e all’ospitalità di spettacoli di innovazione e ricerca. Non è però chiarito cosa si intenda esattamente per “ricerca”: punto che bisognerà definire per permettere agli enti teatrali di adempiere il ruolo di promotori della drammaturgia emergente». Così a Catania accade che una mattina ci si svegli e ci si renda conto che dialogare con un territorio che aspetta di essere ascoltato, favorendo lo sviluppo di quelle tendenze di quei fermenti e di quelle possibilità dovrebbe essere un obbligo per gli Stabili. Trattandosi di un teatro pubblico sarebbe giusto favorire la ricerca per vocazione, non per obbligo, ma visto che d’obbligo sembra trattarsi, è lecito chiedersi quali siano state le sanzioni nel caso si contravvenisse a tali vincoli − pesanti altrove, in Sicilia nulli.

Ma qui accade anche che si ammetta, aggiungerei candidamente, che non è “chiarito”, o chiaro che cosa si intenda per ricerca, quasi a dire: “Scusateci, è vero non abbiamo favorito la ricerca, ma qualcuno sa cosa sia la ricerca?”. Potrebbe sembrare una giustificazione, ma noi vogliamo piuttosto leggere la voglia di colmare questo gap con un mondo che corre sempre più veloce, con un pubblico che scappa, con un gusto che si evolve, con esigenze estetiche e culturali che non possono non essere soddisfatte. Bisogna quindi “chiarire”, definire, sperando che ciò non significhi “etichettare”. Certo, perché non esiste una voce neanche su Wikipedia che reciti “teatro di ricerca”, ne qui si ha la pretesa di disquisire sull’argomento; ci si può magari permettere di consigliare qualche lettura, ma senza peccare di presunzione, interessati piuttosto a ritrovare nell’inquietudine del nostro Direttore un disagio più o meno generalizzato. Cosa è/cosa non è il teatro di ricerca? Forse potrebbe bastare dire che non tutto è così definibile, che spesso l’Arte rifugge dalle definizioni, dalle catalogazioni, dalle gabbie dei canoni interpretativi, l’Arte non va chiarita o incasellata, va solo compresa, ascoltata, percepita.

Convegni, incontri, dibattiti e giornate di studio sono di certo utili, ma se manca la necessità di sintonizzarsi su quegli enzimi di novità che potrebbero far fermentare una realtà ormai ferma è inutile qualsiasi definizione da vocabolario o da manuale, inevitabilmente troppo semplicistica. E non sono bastati appelli come quelli di Renato Palazzi che su Il Sole 24 ore del lontano 2006 scriveva: «Si può dire che da qualche anno a questa parte il laboratorio, la fucina creativa della nostra scena sia inequivocabilmente il Sud, dal punto di vista geografico e non solo geografico», o di Dario Tomasello che parla del «ruolo cruciale» svolto dal Meridione nel panorama del teatro italiano attuale.

Ci si aspetta che chi svolge un servizio pubblico non si limiti garantire un consumo di spettacoli, ma ripensi il teatro con la sua vocazione di creatività in quanto strumento culturale, ideologico, formativo da reinventare ogni giorno. Forse, ma solo forse, ci sta tentando lo Stabile palermitano con questa annunciata, ma nel complesso dubbia, apertura nei confronti delle numerose realtà locali. Realtà piccole ma che vengono riconosciute fuori, programmate nei festival, recensite su testate importanti. È il primo tentativo di apertura, staremo a vedere, in modo molto vigile. È solo un’ipotesi, ma forse il teatro di ricerca potrebbe essere un percorso artistico coerente, innovativo, di rottura nei confronti di codici espressivi stantii, un teatro osmotico che proprio dal confronto/scontro con la città trae la sua principale ragione d’essere. Forse è questa mancata dialettica con il suo territorio e con la sua città ciò che maggiormente si può imputare alla politica degli Stabili.

E forse è importante ritornare su questa città che, generalizzando, si è definita come priva di ricerca. Allora è il caso di scandagliare meglio questo tessuto, che solo in apparenza può sembrare atrofizzato, e che a guardare bene lancia segnali vitali fortissimi, rimasti inascoltati, isolati, quando invece andrebbero salvaguardati, favoriti. La loro è resistenza e mi voglio sentire dalla loro parte, questa volta, perché è dovuto. Allora non è vero che manchino realtà piene di spinte e di idee, ciò che manca è un tessuto connettivo necessario per poterle definire significativamente. Manca cioè una temperie, un dibattito che farebbe in modo che quelle voci non siano più isole.

Filippa Ilardo

Leggi anche:
Teatro Stabile di Catania. Il “dito grosso” spinge via il contemporaneo

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