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ricci/forte: Imitation of Death or imitation of life?

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foto di Daniele+Virginia Antonelli

Nei contesti più diversi, dai sotterranei della Fondazione Fendi a Roma fino ai maggiori teatri in giro per il mondo, il lavoro di ricci/forte è diventato negli anni un fenomeno di massa. Un pubblico sempre spaventosamente numeroso, interminabili minuti trascorsi, a spettacolo terminato, ad applaudire sul sottofondo di una musica che riporta in scena performer sudati, esausti, sorridenti per l’ultima fatica lasciata alle spalle.

Non fa eccezione il loro ultimo progetto, imitationofdeath, presentato al Teatro Vascello per il Romaeuropa festival. L’assunto di partenza sembrerebbe essere quello di una vita logorata da aspettative deluse, da sogni che si tramutano in incubi, in una società (perché c’è sempre la società) che divora la socialità, finché una qualsiasi individualità finisce sepolta viva. Una vita vissuta insomma come imitazione della morte, una rincorsa senza sosta alla ricerca di prove d’evidenza di una vita che ci ha invece abbandonati da tempo.

Nel programma di sala di imitationofdeath si parla di come ricci/forte colpiscano per la capacità di mettere lo spettatore di fronte alla realtà, di fronte al «presente», di rappresentare «l’essere umano oggi, in Italia». Quella offerta è una versione dei fatti, il ritratto possibile di una generazione. Ma è nel modo in cui viene realizzato che si fonda l’efficacia di quel ritratto. Qualunque sia quel “presente”, ha bisogno di una rappresentazione aperta e sincera, che manca al lavoro di questi artisti.

foto di Gianfranco Fortuna

Se si mettono in fila tutte le scene di imitationofdeath come di Grimmless, Pinter’s Anatomy, Wunderkammer Soap si registra senza dubbio, all’apparenza, un disperato tentativo di colpire in faccia il pubblico, di consegnare ai suoi occhi qualcosa che avviene senza filtri, senza finzione e senza reti di protezione. Al di là della nudità, che ormai è quasi un tratto obbligatorio (ci torna in mente il divertente scarto ironico del One Day degli Artefatti, in cui l’avvenimento diventava vedere un attore nudo rivestirsi), gli schiaffi sono schiaffi veri, le lacrime sono lacrime vere, le lingue passano davvero sugli organi genitali, il tacco 12 di quello stivaletto fetish si è davvero conficcato nella schiena di quel poveraccio con la faccia gonfia di sberle e ora affondata in un monte di ketchup. Ma senza il necessario scarto poetico che tramuta quei segni in segnali, senza il commento che argomenta il “like” (ci piacerebbe dire con un pizzico di sarcasmo), proprio nel momento in cui si considera quella presunta esplosione di verità il senso che da essa dovrebbe scaturire si annienta, si estingue.

Monologhi dal profondo tratto istintuale e pure sognante, sagace e ad arte intriso di termini socialmente contemporanei, rudimentali coreografie di gesti violenti oppure osceni oppure schizofrenicamente furiosi o dolci, il tutto su un tappeto ben studiato di musiche che sottolineano virgole e accenti di ogni sentimento. Ma si tratta di sensazioni, non di sentimenti, niente che realmente si generi dall’interno, ma una stimolazione visiva e uditiva che impartisce ordini, che traccia nei minimi dettagli e impone un percorso e che in nessun momento chiama davvero in causa lo spettatore. Eccolo il paradosso: mettere in piedi un montaggio delle attrazioni che all’apparenza pretende di coinvolgere la materia più intima di un osservatore, vale a dire il tratto di unione tra corpo e sentimento, e allo stesso tempo non lasciare in nessun modo che lo spettatore entri in quel processo in maniera critica.

In imitationofdeath gli interpreti rivolgono al pubblico lo sguardo. Ma è uno sguardo vacuo, miope, vitreo, mai davvero rivolto. Addirittura le domande dirette cadono nel vuoto: si interrogano gli spettatori senza tuttavia attendere risposta alcuna. Più di una volta ci assale la tentazione di rispondere, finalmente, di urlare che anche noi siamo qui. E che non siamo intrusi, siamo venuti perché siamo stati invitati.
Rilevante è di certo la ricerca sui performer, le cui biografie, elaborate in fase di creazione, gettano le basi per la drammaturgia. Eppure una messinscena all’apparenza così dirompente risulta poi estremamente frontale, l’unidirezionalità della forma monologo esaurisce i tratti più intimi in una massa di reazioni preconfezionate che dal parossismo della performance non raccolgono alcun senso aggiunto, proprio lì finiscono invece per disperdere il segno.

foto di Piero Tauro (particolare)

Dopo Macadamia Nut Brittle, visto quando ancora ricci/forte era una compagnia e non un fenomeno di massa e nel quale a sorreggere il forte e spregiudicato impianto visivo c’era un testo di Dennis Cooper, l’indubbio talento visivo e per certi versi compositivo del duo ha preso il largo su una deriva drammaturgica in cui un ritratto impressionista e accattivante dell’universo neotecnologico (con tutta la schiera della terminologia da social media) viene frullato insieme a quel che rimane dei logorii tardo-adolescenziali, lamenti di smarrimento che – tradotti in messaggio da ricevere – diventano una mappa di disperazione o, agli occhi di chi oltre all’adesione emotiva cercherebbe il piano critico su cui discuterla, piuttosto una stilettata di moralismo.

Per quanto si pretenda di vedere in scena emozioni che accadono e disperazioni a spasso con le proprie gambe, il tempo e lo spazio in cui tutto questo accade è finto e finto resta. Sempre. La chiave per il vero e proprio accadere del teatro sta proprio nel vedere la distanza tra attore e osservatore liquefarsi nel momento in cui la si considera.
«Più tu diventi reale, più tutto intorno a te diventa irreale», diceva John Lennon.

Sergio Lo Gatto

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IMITATIONOFDEATH
Cinzia Brugnola, Michela Bruni, Barbara Caridi, Chiara Casali, Ramona Genna, Fabio Gomiero, Blanche Konrad, Liliana Laera, Piersten Leirom, Pierre Lucat, Mattia Mele, Silvia Pietta, Andrea Pizzalis, Claudia Salvatore, Giuseppe Sartori, Simon Waldvogel
drammaturgia ricci/forte
movimenti Marco Angelilli
direzione tecnica Davide Confetto
assistenti regia Liliana Laera, Barbara Caridi, Claudia Salvatore, Ramona Genna
regia Stefano Ricci
una produzione ricci/forte
in coproduzione con Romaeuropa Festival | CSS Teatro stabile di innovazione del FVG | Festival delle Colline Torinesi | Centrale Fies

PROSSIME DATE

13/18 novembre 2012 Piccolo Teatro di Milano [cartellone]

30 novembre/1 dicembre 2012 Teatro Contatto al Palamostre di Udine [cartellone]

7/8 dicembre 2012 Teatri di Vita di Bologna [cartellone]

18/19 gennaio 2013 Teatro Studio Krypton di Scandicci (FI) [cartellone]

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

5 COMMENTS

  1. Condiviamo in pieno la fine analisi di Sergio Lo Gatto, non possedendo gli strumenti della critica, meno di un anno fa dopo la visione di Grimmless, ci limitavamo a dire: spettacolo furbo, senza cuore che ci tradisce e tradendoci tradisce il teatro.

  2. Carissimi, grazie di aver letto. Condivido molto la vostra ultima frase. E forse tutto potrebbe essere risolto e prenderebbe senso se non ci fosse un’ansia di prendere tutto così sul serio.

  3. Di solito si confonde la serietà con la seriosità. Quello che ho visto in quei lavori è fondamentalmente un’assenza totale di umorismo, nel senso pirandelliano del termine, un sentimento del contrario.
    Ho letto con vero piacere questo articolo, vi ho ravvisato uno dei pochi interventi critici immuni alle mode e a quei tentativi deprecabili di catturare il pubblico cavalcando una tendenza voyeuristica.
    Non penso ci sia molta differenza tra lo strappare un applauso con uno schiaffo o un paio di lividi e farlo tramite un seno come nei film dei Vanzina.
    Grazie davvero

  4. Caro Federico, ho letto (mea culpa) solo ora il tuo commento. Grazie del tuo contributo. Ti assicuro che a me non piace MAI stroncare uno spettacolo, perché penso che un critico debba essere innanzitutto un “tifoso” del teatro, deve tifare per una bella partita. Sono solo contento *sinceramente* se quel che scrivo porta a una discussione, o quanto meno vi si inserisce e, dal suo interno, aiuta il discorso critico a crescere. Grazie davvero.

  5. Complimenti Lo Gatto. Hai inquadrato perfettamente il problema e analizzato lo spettacolo con chiarezza e magnanimità. Se tanto pubblico li apprezza sarà perché sono adolescenti come loro. grazie.

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