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È vero: Paolo Sassanelli battezza la nuova rassegna REP

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Foto di Ufficio Stampa

Una città come Roma è sempre stata vittima dei tempi e dei modi della politica, sarà perché ogni autorità vi risiede, ogni piccolo ente o società vi ha almeno un appoggio che gli permetta di partecipare al congresso del potere. Questa stagione si apre perciò con un senso di attesa: la Regione Lazio nella bufera e prossima alle elezioni, la Provincia le ha concesso il suo presidente come candidato governatore, il Comune si appresta a una campagna elettorale che per il momento ha solo elettori, non candidati. In tale situazione tutto dovrebbe essere morto, eppure come spesso accade è alle attività culturali che appartiene il compito di mostrare la luce oltre il buio, spingendo a quella trasformazione di cui si avverte grande necessità.

In questo panorama prende il via una rassegna atipica per questa città, ma che ricalca esperienze all’estero invece usuali e particolarmente frequenti: REP – la compagnia di repertorio, porta fino al 25 novembre 2012 ben 40 artisti per 27 spettacoli al Teatro Spazio Uno, poco nota all’ambiente romano ma accogliente sala trasteverina attiva da parecchi anni. Per farlo questi artisti si sono riuniti in una associazione culturale, il Gruppo Danny Rose (ispirandosi a un film di Woody Allen), cercando condivisione di lavoro su tutti i piani possibili e trovando infine alcune pepite nel deserto: la partecipazione sotto forma di sponsorizzazione di BNL Gruppo BNP Paribas, che dovrebbe aver risolto la difficoltà economica (almeno per le spese tecniche) alla base di qualsiasi tentativo di rassegna, in un ambiente culturale minato da tagli e da atavica aridità di risorse.

Vicolo dei Panieri sta a Trastevere, poco nascosto oltre l’andirivieni turistico di un quartiere divenuto di moda; come spesso accade a Roma, per ricavare un teatro bisogna strapparlo a certi anfratti di condominio; lo Spazio Uno non fa eccezione e protegge la sua bella e spaziosa sala con un foyer accogliente, prima del passaggio a cielo aperto per un cortiletto in cui sostare quel poco, prima che inizi lo spettacolo. È vero, presentato in prima nazionale, porta in Italia un testo inedito (Radiance) dell’autore australiano Luis Nowra, per la regia di Paolo Sassanelli – attore noto per alcuni passaggi televisivi ma soprattutto animatore del territorio indipendente romano, teatrale e cinematografico – che dirige in scena Marit Nissen, Giulia Weber e Giulia Francia. Tre donne, riunite in una casa, si trovano a confrontarsi ognuna a proprio modo con la morte della madre. Sorelle, dunque, ma di tre diversi padri. Differente, pertanto, il loro legame con una madre assente, passionale e divisa fra l’amore per loro e quello per sé stessa.

Sassanelli ne fornisce una lettura semplice, cercando di far apprezzare un testo ignoto e affidandosi all’interpretazione perché ne risaltino certi punti di snodo. Lo spazio scenico è pertanto la casa non più abitata dalla madre e in cui quindi potremmo dire siano loro, ora, disabitate: tre donne cresciute secondo una linea distorta, cercano di tenersi assieme nonostante le distanze, rintracciano nel dolore di una perdita al presente quel dolore antico che ha attraversato la loro intera vita, la perdita al passato. Una cantante d’opera, un’infermiera (rimasta con la madre fino alla fine) e una “lolita” che vorrebbe incontrare il padre ignoto e lo cerca in tutti gli uomini che incontra rivolgono verso il pubblico (non tanti quella sera, a dire il vero) il loro sguardo: noi siamo l’isola lontana dove vorrebbero portare la madre, noi siamo la casa che prenderà fuoco.

Nonostante le intenzioni e l’energia delle tre attrici, tuttavia, lo spettacolo risente profondamente di una stanchezza in parte testuale (se la prima sezione si lancia con una certa verve, la seconda scema pericolosamente perdendo rigore e svelando difetti compositivi) e in parte dovuta alle scelte didascaliche di una regia ancorata al buio/luce e che alterna ogni cambio scena con musiche e immagini proiettate poco congrue alla rappresentazione. Alcune soluzioni non convincono e virano eccessivamente verso il cliché (emblematica a questo proposito una scena: inevitabile che le ceneri della madre, in mani loro, finiscano in terra), generando un ritmo monocorde che non indaga un crescendo ma si articola per blocchi troppo rigidi. Resta tuttavia una bella sensazione, in fondo a questo spettacolo: le tre donne con lo sguardo perso verso la madre isola, dove convergono le loro diverse correnti. Ci si augura sia lo stesso sguardo con cui accogliere questa nuova proposta di rassegna, che non resti isolata ma si ancori nell’arcipelago dei teatri romani.

Simone Nebbia

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