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Colazione da Tiffany con Francesca Inaudi. Una commedia amara?

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foto di Riccardo Ghilardi

Probabilmente circola una strana polvere magica nell’aria della grandi produzioni cinematografiche e teatrali. L’ha respirata Woody Allen portando il suo carrozzone negli anni ’20 con l’ultimo Midnight in Paris, in grosse quantità anche Michel Hazanavicius, regista dell’acclamato The artist, e non è rimasto immune il grande teatro di casa nostra (l’aggettivo in questo caso riguarda l’impegno economico produttivo) che guarda  spesso al passato, strizzando l’occhio al cinema – ormai si dà per assodato che una storia passata dal grande schermo abbia il successo in tasca pure sul palco. Ecco dunque i Tennessee Williams e i Truman Capote, resuscitati nella speranza di trovare qualche bisognoso di quella polvere magica, che nient’altro è che la nostalgia.

In quell’elenco (approssimativo e volutamente eterogeneo nelle messe in opera e nei risultati) rientra anche Colazione da Tiffany con la regia di Piero Maccarinelli in scena al Teatro Eliseo. Nonostante il regista specifichi che la sua messinscena non prenda le mosse al film di Blake Edwards con Audrey Hepburn e George Peppard del 1961, ma utilizzi il testo teatrale di Samuel Adamson, decisamente più rispettoso del romanzo di Truman Capote, è naturale che l’immaginario collettivo degli spettatori arrivi in platea con un imprinting hollywoodiano, tanto da far loro percepire l’assenza di Moon River in “colonna sonora”. Pure la protagonista, Francesca Inaudi, nelle interviste e dichiarazioni fa di tutto per scrollarsi di dosso il personaggio della Hepburn strizzando invece l’occhio a Marylin, la star che avrebbe voluto Capote. Infatti è il conflitto film-romanzo l’argomento centrale prima che lo spettacolo abbia inizio, e durante, sotto forma di brusio, fino al commento sul finale aperto e malinconico del libro rispetto all’happy end della pellicola. Dunque 1943, Lorenzo Lavia nei panni di  William Parson, uno scrittore in erba, per sua stessa ammissione, incapace di vivere. Affascinante e funzionale la scenografia di Gianni Carluccio su due piani: sopra la camera da letto di Parson, confinante con gli altri inquilini, al piano di sotto l’appartamento di Holly, sulla sinistra il bar di Joe Bell compare all’occasione con il suo bancone mobile, sullo sfondo lo skyline di New York in bianco e nero. Francesca Inaudi tratteggia il carattere della giovane donna – fuggita da una noiosa vita di casalinga texana e approdata nella metropoli luccicante e lussuriosa – con la leggerezza che si addice al personaggio: è ironica e svampita, si lascia mantenere da ricchi e inetti amanti per vivere, ama le feste e ha un sorriso malizioso per tutti, vive la vita come un eterno party e non parla mai del suo passato, lo scaccia via pure quando si presenta in carne e ossa nella figura smunta e ingenua del vecchio marito abbandonato. I toni sono quelli della commedia, ma solo a tratti mantengono la brillantezza necessaria. La messinscena di Maccarinelli non riesce a sostenere la vicenda proprio perché questa risulta distante dalla nostra realtà, rendendo le quasi tre ore di spettacolo divertenti e interessanti solo in alcune occasioni, quando qualche guizzo grottesco si insinua tra le pieghe di una commedia che non sembra voler mettere mai in moto del tutto i propri meccanismi. Se la vicenda ha ormai poco da scandalizzare – eccetto per il nudo della Inaudi che col suo mezzo fondo schiena in bella mostra genera commenti di tutti i tipi tra le vecchine impellicciate in platea, le ultime capaci di tale rimbrotto – ci chiediamo sinceramente se non fosse più efficace una serie di tagli per rendere il testo di Adamson  snello e spingere maggiormente sul pedale della pochade. Resta invece uno spettacolo che concede poco alle emozioni più malinconiche in quanto i personaggi sono tutti decisamente macchiettistici (compreso il Parson di Lavia), ma che allo stesso tempo non ha i ritmi di una commedia, né tanto meno il coraggio di azzardare letture illuminanti per il pubblico contemporaneo.

Andrea Pocosgnich

in scena al Teatro Eliseo [ cartellone 2011/2012] fino al 1 aprile 2012
Roma

Colazione da Tiffany
di TRUMAN CAPOTE
adattamento Samuel Adamson
traduzione Fabrizia Pompilio
con Lorenzo Lavia, Francesca Inaudi, Mauro Marino, Flavio Bonacci, Anna Zapparoli,
Vincenzo Ferrera, Giulio Federico Janni, Cristina Maccà,
Ippolita Baldini, Riccardo Floris, Pietro Masotti
scene Gianni Carluccio
costumi Alessandro Lai
regia PIERO MACCARINELLI

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

10 COMMENTS

  1. Ero presente alla prima, e ho assistito all’esempio di una rappresentazione inutile e pensavo allo spreco di denaro più che seguire gli inadeguati attori. Perchè nessuno dice che Maccarinelli è un pessimo regista che da anni lavora immeritatamente in tutti i più grandi teatri italiani? Questo fa indignare, lo spettacolo provoca solo una domanda: “PERCHE?”

  2. io l’ho visto la settimana scorsa a Firenze, e mi sono schiettamente annoiata. Nessun brio , personaggi completamente senza alchimia tra loro, con la massima espressione in quei baci asciutti e inutili.
    La regia era PESSIMA. E la rappresentazione priva di interesse (né tanto meno il coraggio di azzardare letture illuminanti per il pubblico contemporaneo : sono d’accordissimo!!!)

  3. Decido di vedere Colazione da Tiffany di Maccarinelli perche’ l’alternativa e’ Twilight 3D al cinema vino, ma lo spettacolo e’ cosi’ piatto che neache con gli occhialini 3D se ne caverebbe un’emozione.
    Ottimo per l’insonnia.

  4. Insomma mi sembra di capire sia stato abbastanza apprezzato in varie parti d’Italia… Ma a parte gli scherzi: c’è qualcuno che vuole lasciare un segno positivo al dibattito? SN

  5. L’ho visto stasera:ero imbarazzata per gli attori. Un po’ meno per il regista: ma l’ha visto lo spettacolo prima di sparpagliarlo a caso in tutta Italia? E loro, gli attori, un piccolo video di quello che vanno facendo sul palco, l’hanno guardato? Sapevo che Francesca Inaudi è un’attrice che lavora in tv e cinema: allora è meglio che il teatro lo lascia fare ad altri. Pessimo

  6. Veramente pessimo: regia imbarazzante, attori inadeguati, recitazione sopra le righe ( come quasi in tutti gli spettacoli ormai ) senza una risata vera o un vero attimo di malinconia, unica nota interessante la scenografia

  7. Mi hanno regalato due biglietti, stasera vado a vederlo. Ma a leggere i commenti m’è passata la voglia…

  8. Francesca Einaudi è un’ottima attrice, mi sorprende come cada facilmente nell’essere così azzardata, come il resto dello staff: distaccarsi dal film “Colazione da Tiffany”. La storia originale è insipida, se l’avesse interpretato la Monroe sarebbe risultato banale, e invece grazie a Audrey Hepburn, Colazione da Tiffany è diventata una delle commedie storiche, migliori di sempre, e da cui si attingerà sempre.
    Facendo un musical del genere, come minimo, bisognerebbe dire, prima di ogni spettacolo “non siamo e non saremo mai al livello del film”, e non fare altro che omaggiarlo, sottolinenandone autoironicamente l’ovvia inferiorità.
    E invece fanno il contrario, come tutti gli italiani che tentano di fare i gradassi e di fare quindi ancor più rumore cascando.

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