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Atlante XVII – Signore e signori, buonanotte. Cronache dalla TV

Signore e signori, buonanotte. Così titolava un fortunato film collettivo che chiudeva l’altrettanto fortunata stagione del cinema appassionato e puro della commedia italiana, proprio additando in parodia il nascente dominio televisivo come il passo d’addio a tutto un mondo che andava scomparendo – trasformandosi diranno i buontemponi – e tenendo fermo quel dito ad indicare verso la dissoluzione di una capacità di sguardo che irrimediabilmente si consegnava nelle mani del nemico. Eravamo nel 1976. Agli albori di quel che ancora forse s’ignorava ma già all’orizzonte s’intravedeva, fra le tendine consunte attraverso cui si scorgevano gli spazi privati, le camere e i tinelli, fino ai bagni delle case, ognuno dei luoghi dove aveva imparato ad arrivare la TV.

Di lei, ho bisogno di parlare. Perché dopo un pomeriggio intero passato a sedurre l’ascolto di studenti universitari in quel piccolo spazio vitale che è un seminario di critica teatrale, cercando di raccontare loro il motivo per cui andare a teatro è un bisogno e un dovere di cittadino, tornare a casa e trovare accesa la TV è un contraltare spaventoso e disarmante della condizione cui si costringe quest’epoca inaridita. Di lei, ho bisogno di parlare. Io cresciuto nella generazione che ha imparato a definirla in maiuscola: TV, come fosse un dio che invece ho saputo ridurre in minuscola, per la TV no, anche il programma di scrittura nuovo di zecca, in minuscola, me lo considera errore.

Intanto una precisazione: questo articolo non è un articolo (astenersi perditempo e vecchi simpatizzanti della tecnica recensoria), questo articolo è il mio sonnifero, ossia quanto sto cercando di tenere insieme da quando mi sono disteso nel letto e il sonno m’era impedito, così da riaccendere la luce, riaccendere il computer, lasciare acceso il cervello che intanto già manipolava pensieri irriducibili, l’unico modo per spegnere tutto dopo aver finito. Alla lotta con l’anestesia al naturale di un corpo sfinito aveva contribuito non poco lo stimolo di un disturbo continuo, pedante, che d’improvviso ho iniziato però a penetrare nelle sue viscere, fino a svelarne la struttura, ma non il mio sollievo: due comici strilloni, sopra un palco-arena in cui s’esibivano battute di quarta categoria, cui però sapeva seguire con costante fida cecità uno scroscio di risata preventiva, quella stessa dei telefilm americani in cui s’è cresciuta – sola – la mia generazione pop corn. In quel meccanismo erano cioè evidenti i passaggi determinanti che qualsiasi buon regime sa adottare per il giusto annientamento. Perché dopo la battuta e la risata (ammettiamolo, ad occhi chiusi fa l’effetto dello sciacquone), seguiva immancabile l’appagante risata casalinga dei telespettatori, milioni ovunque, partecipi di uno scempio della nobiltà di relazione. Ho avuto chiaro quanto appariva soltanto domenica nel supporto settimanale alla cultura che ci regala Il Sole 24ore, un articolo sull’analfabetismo funzionale, in cui si rendeva noto “che il 47 per cento degli italiani dai 14 ai 65 anni ha forti deficienze nella semplice comprensione di un testo. All’Italia seguono il Messico (43,2%), l’Irlanda (22,6%), Gran Bretagna (21,8), Usa (20), Belgio (18,4) giù giù (anzi su su) fino alla alfabetizzatissima Svezia (7,5%!)”.

Non è qui solo conoscenza, si badi bene: si tratta della comprensione di un testo, ossia dell’applicazione di quello che è lo spirito critico, locuzione astrusa che – se sciolta – non è altro dalla qualità di scelta rispetto a un accordo o meno con quanto si pone in relazione (krìnô, dal greco: distinguere). Ciò vuol dire che questo schema proposto risponde unicamente a un congegno di riconoscibilità, ossia quella stasi mentale che consegna la propria capacità d’elaborazione a un pensiero precotto (e premasticato) in cui far stare tutto quanto ci si rilassa di saper pensare. Fa niente che sia pensato da altri e da noi al massimo sottolineato. Questo meccanismo – nello show, mero esercizio di stile affabulatorio – non è per caso lo stesso che s’innesca di fronte ai telegiornali e i programmi di discussione politica? Riprodurre lo schema è stata la definitiva consacrazione del genio italiano senza se e senza ma: da Giotto a Leonardo, da Machiavelli a Berlusconi (d’you remember him?). Ed eccoci a noi, signore e signori: l’arte è dubbio, un punto di domanda, ossia l’unico passo che ne permette un secondo, cercare una risposta. Come pensare di saper leggere i segni di qualcosa nell’epoca della specularità ridanciana? Riprendiamoci tutto, tutto quello che questi trent’anni hanno saputo togliere a millenni di fiorente primato culturale. Soltanto dicendovi questa frase, solo adesso posso anch’io dire a tutti voi: signore e signori, buonanotte.

Simone Nebbia

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Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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