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Atlante XII – Da Utopia al Premio Ubu Bene Comune

Il 1° maggio del 1968, un gruppo di rivoluzionari decise di costruire un’isola e dar vita a uno stato indipendente sul modello ideale dell’Utopia di Thomas More: la Repubblica dell’Isola delle Rose, con l’Esperanto lingua ufficiale. Undici chilometri al largo della costa adriatica, poco lontano da Rimini. Durò un anno. Poi le autorità italiane – quindi straniere – decisero di muover guerra e farla abbattere. Invece Atlante, questa settimana, non prende il largo dall’isola Ubu e si sofferma sulle sue rive sabbiose, non a guardare lontano ché a quel punto tanto vale ripartire, ma per guardarsi alle spalle, nell’intrico della foresta in cui immagina ci sia vita, e quanta, ancora da rintracciare.

La scorsa settimana c’è stata la cerimonia per l’assegnazione dei Premi Ubu 2011, al Piccolo Teatro di Milano; da quella occasione chiaramente ognuno muove le sue conclusioni (e ad avere interesse per la cerimoniosità si potrebbe certo dire della commozione per la prima riunione dopo la morte di Quadri o della buona lena di Gianrico Tedeschi a 92 anni, ma a me le cerimonie non piacciono, o meglio, non hanno per me nulla a che fare con una certa idea di teatro), così che anche noi muovendo le nostre abbiamo rintracciato una tendenza nord-centrica che marginalizza il centro sud d’Italia e lanciato un nuovo capitolo del discorso attorno alla credibilità di un premio che troppo poggia sulla capacità di giro, sia degli spettacoli che dei giurati votanti. Su Controscene del Corriere della Sera di Bologna, il 18 dicembre 2011, Massimo Marino raccoglieva alcune istanze scaturite da quell’accenno di dibattito, annotando: «bisognerebbe che il teatro, in qualche modo, li facesse propri e migliorasse la formula (e riprendesse l’idea geniale del Patalogo: ma chi?). Soprattutto bisogna notare come questo Ubu sia una radiografia del teatro e della critica italiani: frammentati, in crisi». Da qui occorre ripartire. Perché se c’è una cosa che s’impara facendo critica è che il dibattito e le posizioni prendono forza se discusse e gettate in battaglie anche polverose, ma che se ne portino nel pensiero i segni. Altrimenti, senza fare rete e tentare proposte e valutazioni, può diventare un parlare vuoto attorno a temi che in fondo già periscono nel disinteresse generale. Già, perché gli Ubu del teatro sono già meno di troppo altro, specchio di un ambiente che sconta una marginalità culturale ormai radicalizzata.

Nell’articolo di Marino – tra i pochi sull’argomento in questi giorni –  l’analisi riparte dalla considerazione che non si possa parlare di vincitori, ma di “perdenti ed ex aequo”, per i pochi voti ottenuti; poi è la pigrizia degli operatori che non sanno rischiare e propongono sempre gli stessi titoli, così che i critici, senza più l’opportunità economica di girare e seguirli chissà dove, vedono ciò che vedono tutti, finendo per svolgere funzione di attestazione, più che di critica e proposta del nuovo. D’accordo con queste istanze, già poste nel mio articolo (mai detto, per precisione, che i critici non girino per mancanza di curiosità, come male interpretato) che corredo di un piccolo studio per aree: se è vero che i critici girano meno, quella tendenza territoriale si dimostra evidente dalla provenienza (stanziale, dunque) dei giurati: su 53 soltanto 17 sono sotto Firenze che ne ha 4, con 14 romani e 3 miseri sotto Roma): è necessario aggiungere qualcosa? Ma sotto certi aspetti si può essere ancora d’accordo con l’importanza “bene o male” dei premi, perché allora non poter pensare, visto che queste formule non convincono, qualcosa di diverso?

Così tanto un luogo teatrale non mi persuade possa essere trattato come bene comune, perché là dove manchi il conflitto di idee e si punti al consenso allargato io rinnovo: non c’è teatro, allo stesso modo però proprio un’istituzione come questo premio avrebbe tutte le caratteristiche per potersi definire tale: Premio Ubu Bene Comune, perché no? Perché non associare tutte le produttività italiane – fondazioni, factory, festival, teatri stabili o privati e più ancora – a sostegno dell’unico spazio davvero di tutti, così che non diventi di nessuno e si salvi di una qualche autorità? Il sistema potrebbe essere vicino a quello di Scenario, per esempio, così da livellare certe differenze e garantire all’intero ambiente un’opportunità credibile. E se il problema è quello della raggiungibilità, che le proposte iniziali costituiscano un’esfoliazione primaria e dai ballottaggi si dia vita a una vera e propria rassegna, si portino in scena gli spettacoli, tutti i giurati li vedano, una vera settimana della critica con tanto di concorso. Se davvero in fondo interessa a tutti questo Premio Ubu, perché non poter pensare che tutti lo sostengano e ne siano parte? Se tutti ne sono parte, nessuno ne è padrone. Una proposta, la nostra, forse utopia. Ma d’altro canto siamo su un’isola, luogo che esiste appena, terra precaria sul confine dall’essere mare o poco prima che il mare stesso decida di ingoiarla del tutto. Poi nel 2009, dopo alcune ricerche e quarant’anni passati, rieccola affiorare – l’Isola delle Rose – poco lontano dalla riviera romagnola, paradossalmente fulcro dell’altra società da cui si cercava di fuggire. Ma il tempo consolida, anche quando si pensa stia disgregando: un’isola quando c’è, esiste anche sommersa.

Simone Nebbia

Leggi gli altri viaggi di Atlante

Leggi la storia dell’Isola delle Rose narrata da Graziano Graziani, esperto di politica micronazionale

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4 COMMENTS

  1. L’idea della settimana finale non solo è bella, ma anche realizzata: in Germania coi Theater Treffen, in maggio a Berlino, fanno proprio così. Là credo però che scelga una commissione. Il problema è un altro. Negli Ubu Quadri sceglieva (invitava) i giurati, cercava ( e in parte metteva) i soldi. Chi lo farebbe, chi lo farà in futuro per premi Ubu, più o meno rinnovati. Ci vorrebbe un’istituzione o qualcuno che si assuma l’onere. Credo basti mettersi a pensare e a fare un progetto. O no?
    Massimo Marino

  2. Cari, ma voi siete gli stessi che avete fatto così gli schizzinosi con il premio Rete Critica, che andava proprio in questa direzione ? Senza nemmeno rispondere a chi cercava di dialogare? E adesso ve ne venite fuori con questa bella trovata? Buon Natale e felice 2012!!!

  3. Caro Massimo, il tema delle economie è assai emergente, anche troppo ovvio, ma davvero in queste condizioni l’Ubu rischia di smettere la sua funzione di riferimento. Se vogliamo che anche il teatro continui a mantenere una opportunità di giudizio, e che il giudizio sia critico, allora deve darsi una forma credibile non meno che sostenibile: sono due questioni paritarie, secondo me. La mia proposta, che ammetto utopica, è che quella funzione istituzionale sia svolta dai centri di produzione e perché no, magari da una sorta di federalismo buono su scala regionale. Ci sono i modelli di Scenario o quello di Anticorpi XL per la danza, o se non piace o (e magari qui sono in molti più informati di me) sono modelli scadenti, ci si inventi un modo nuovo e che faccia leva proprio su quella curiosità anche crescente: perché non promuovere osservatori nelle varie regioni d’Italia? Magari in forma laboratoriale così da formare nuovi critici, come già in un discorso di questa estate ci si proponeva? Se questo premio è importante e importante è che resti, si cerchi di farlo restare con autorità, altrimenti l’intero ambiente sconterà una marginalità ancora peggiore. Intanto, per ora, credo si faccia tenendo alto il dibattito come hai fatto tu, e spero che altri seguiranno. Se ci interessa, altrimenti…
    Simone Nebbia

  4. Oliviero, scrivo in un commento diverso in modo da non confondere le due cose, giacché molto diverse sono. Chi ha seguito il dibattito attorno a Rete Critica e al Premio omonimo credo facilmente si potrà accorgere, dalla mole dei documenti prodotti, che quel dialogo non solo c’è stato, ma le nostre risposte sono andate anche oltre le richieste, ponendo questioni che ci sembravano e ci sembrano ancora importanti. Ma entrando nel merito, io non credo che si tratti della stessa direzione: Rete Critica propone qualcosa che rispetto ma che non possiamo – per valore storico e risonanza – accostare ancora alla centralità indubitabile del Premio Ubu, che è un patrimonio del mondo del teatro e in qualche modo traccia un solco trentennale della nostra storia. Essere critici con i suoi caratteri non significa abbatterlo, io credo, ma rafforzarne quelli da mantenere, se si vorrà farlo (come nel commento rivolto a Massimo). La Rete Critica (di cui anche Massimo fa parte) assegna un premio a mio avviso un po’ naif che mantiene inalterate alcune problematiche già presenti nell’Ubu, a volte addirittura amplificandole (come nel caso di voler dividere il web dalla carta stampata). Ma di questo abbiamo parlato, ripeto, nei documenti prodotti. Soltanto mi preme domandarti, se possibile, di mantenere un tono più contenuto nella questione: si può non essere d’accordo ma le modalità del confronto mi sembrano sempre sovraesposte, per altro non ci conosciamo personalmente e non ti nascondo che certi toni rischiano di arrivare dove forse non volevi. Oppure sì? Definire questo tentativo di rilanciare “una bella trovata”, dopo quanto hai scritto, sembra un po’ beffardo, lo ammetterai. Quindi potrebbe indisporre, tutto qui. Detto ciò, felice anno nuovo anche a te.
    Simone Nebbia

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