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Arvigo e Di Casa smarriti nel “Bosco” di David Mamet

elena arvigo - andrea di casa
elena arvigo – andrea di casa

Dopo il successo riscosso nella scorsa stagione dalla sua interpretazione del testo della drammaturga inglese Sarah Kane 4.48 Psichosys, Elena Arvigo torna al Teatro Argot Studio con Il Bosco, testo scritto nel ’77 dal drammaturgo statunitense David Mamet. Attrice di cinema e grandi produzioni teatrali, autrice, interprete originale e brillante di testi e personaggi complessi, Arvigo torna a firmare insieme a Valentina Calvani la regia dello spettacolo, il cui principale motore sta tuttavia nel notevole lavoro degli interpreti.
Andrea Di Casa, anch’egli attore versatile, che lavora parallelamente in teatro, cinema, fiction, è coprotagonista di una storia semplice in cui due giovani amanti che decidono di passare un week-end in campagna. La scena vede la riproposizione filologica dell’interno di una stanza di campagna ricca di mobili e particolari senza eccessi né sconti; nessuna allusione la attraversa, nessuno sforzo di completamento del quadro è richiesto allo spettatore ché, come nel cinema, la scenografia ha una funzione quasi puramente descrittiva.
Unici elementi a separare i piani sono le porte-finestre che, appoggiate una a fianco all’altra, si stagliano sul fondale, lasciando dietro di sé una un corridoio di spazio: l’interno della casa, luogo dell’amore, è così diviso dalla veranda, la scena in cui si svolge l’intera storia. I due personaggi si presentano per la prima volta al pubblico da dietro i vetri opachi delle porte-finestre, filtro applicato ai loro corpi nudi. Icone di un sentimento caldo e sfumato, queste due immagini eteree perdono la loro grana quando l’azione si svolge in scena. Nel transito tra il fuori e il dentro i corpi dei due attori tornano a una dimensione psicologica, la cui voce è fatta di dialoghi serrati. Lo spazio dietro le porte finestre indica dunque un “altrove”, così come lo spazio che si staglia all’orizzonte oltre la scena illuminata, dove due ampolle per pesci simboleggiano il lago. Dietro di sé e davanti sono luoghi metaforici, tracciati, stilizzati ma senza dare pertinenza ai particolari; sono l’altrove sereno in cui la psiche si annulla, possibili vie di fuga, o spazi/tempo di felicità.
Per l’intera durata la coppia resta però confinata nel luogo della lotta e del dramma; la fabula è quasi al grado zero, sostituita dalla narrazione di un contesto esterno/interno ai personaggi.
Nick e Ruth si amano o credono di amarsi, in realtà non si conoscono e, nella dimensione idilliaca della compagna, pensano di poter trascorrere giorni felici e colmi d’amore; in realtà il vuoto che si crea naturalmente nello spazio-tempo della campagna fa si che i due smarriscano le certezze e la direzione che le abitudini cittadine su cui entrambi avevano costruito se stessi, costringendoli, nel rapporto, a svelare l’uno all’altra ciò che di più intimo possiedono: le proprie paure.
Si parte con un lungo monologo della ragazza, il cui entusiasmo incontra le meraviglie della natura che la circonda dimostrando di non saperne cogliere il senso profondo, l’aspetto sublime, ma solo quello che desta in lei curiosità e stupore; l’uomo non risponde ai suoi continui tentativi di appassionarlo e coinvolgerlo. Ruth si trova dunque di fronte un desiderio frustato di condivisione e, desiderosa di amare, pare non voler ammettere la propria delusione. La situazione esplode nella seconda parte, quando un incubo costringe l’uomo a riconoscere un passato che lo tormenta e un presente che non riesce a conciliare. L’ammissione della propria fragilità lo induce a diventare violento nei confronti della ragazza, a sapersi scusare per poi tornare a sbagliare.
Nonostante Nick si riconosca colpevole di un goffo e quasi violento approccio sessuale e del successivo tentativo di strangolamento in risposta ad uno scatto violento da parte della ragazza, Ruth non si decide a lasciarlo.
Resta al suo fianco, continua a raccontargli fiabe nella speranza di poter sanare le voragini che dilaniano. Lo spettacolo termina su questa immagine di tragica poesia: una donna che culla un uomo, che gli racconta una storia. Lei che si addormenta mentre lui continua a tenere lo sguardo aperto sul vuoto che lo colma. Come in molti testi di Mamet, il finale è aperto.

L’interpretazione dei due attori è valore aggiunto al testo: la voce roca e profonda di Di Casa e il suo aspetto rude calzano alla perfezione con il personaggio; la dolce sensualità nei toni e nell’aspetto di Arvigo disegnano una Ruth pura e scioccamente ingenua.
Il limite dello spettacolo è dunque nella scelta di un testo che non lascia spazio alla poesia, tentando di tracciare attraverso parole e atti caratteri perlopiù psicologici.
Come per lo scorso 4.48 Psichosys Elena Arvigo sceglie un personaggio femminile che si caratterizza principalmente per un desiderio frustato d’amore, ma in questo caso la mancanza d’astrazione dall’oggetto d’interesse fa del tema stesso un banale gioco di forze psicologiche.
Ma come dicevamo all’inizio ciò che è veramente interessante in questo nuovo spettacolo di Elena Arvigo è l’interpretazione di tutti e due gli attori, in grado di restituire un mondo. Aldilà del testo.

Chiara Pirri

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