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HomeVISIONIRecensioniHotel Methuselah, l'Inland Empire di Imitating The Dog

Hotel Methuselah, l’Inland Empire di Imitating The Dog

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Ancora una volta Prospettiva conferma l’impegno nel portare in Italia gruppi che difficilmente girerebbero. È il caso di Imitating The Dog, collettivo inglese attivo dal 1998 e all’avanguardia nella sperimentazione di mezzi nuovi e meno nuovi al servizio della narrazione. Nella parete nera che sbarra la scena si apre una finestra bassa e larga, attraverso la quale sono visibili (non interamente, ma solo dalle spalle alle ginocchia) i performer, avvolti da proiezioni video live che di loro mostrano primi piani e dettagli dei movimenti. Ogni suono è accuratamente microfonato, come si farebbe sul set di un film. E, tecnicamente, questo è più o meno tutto. Eppure la sensazione, viva per tutta la durata dello spettacolo, è che si stia assistendo a una piccola magia, tale è la perfezione millimetrica con cui l’impianto tecnico funziona.

La storia del portiere di notte Harry, zelante nella sua livrea blu al desk dell’Hotel Methuselah, è abilmente scritta da Pete Brooks come un omaggio all’immaginario del noir anni Quaranta (di una non meglio specificata guerra si odono mortai e si rispetta il coprifuoco), all’interno del quale entrano in funzione gli ingranaggi della ghost story più classica. Harry è vittima inerme di un’amnesia totale: non ricorda come sia finito lì, né da quanto tempo si occupi di accogliere e registrare gli avventori; svolge il suo lavoro in una sorta di appiccicoso dormiveglia in cui ogni conversazione ha il sapore del deja vu. Un misterioso personaggio sembra prendersi il compito di fargli da coscienza: lo ammonisce di essere “sempre in ritardo”, instilla dubbi sulla sua provenienza, gli pone domande critiche e criptiche, lo mette di continuo di fronte all’evidenza che ci sia qualcosa di rimosso nella sua memoria, forse un senso di colpa per un fatto di sangue, e quella macchia rossa sulla maglietta appare come scomodo presagio.

Il tarlo psicologico cresce e costruisce nello spazio un labirinto di diffidenze e paranoia, soprattutto quando Harry comincia a nutrire la netta sensazione che certi eventi si stiano ripetendo: le tre donne misteriose arrivate la scorsa notte (o era quella prima?) sono in realtà la stessa persona? Il volto sembra quello, ma la voce no; eppure una sembrava conoscerlo; la valigia era la stessa? Ed è nel suo letto che Harry ha dormito? La stanza sembra quella, ma in un albergo tutte le stanze sono uguali. L’hotel non si limita a contenere l’azione, è un personaggio a sé: al suo interno ci si ritrova ma soprattutto ci si perde, quasi fossero tutti vittime di una perfida entità che cancella le tracce. Allora è impossibile ricostruire la storia. Disturbante e dilatato, il ritmo subisce scatti e rallentamenti, segue le sinapsi incontrollabili di un cervello che gira a vuoto, tornando sempre alle stesse domande e alle stesse immagini.

Il testo di Brooks è un abile inchino al cinema di genere, ma anche un piccolo gioiello di drammaturgia in cui durate e pause rispettano la materia che raccontano. E la messinscena di Imitating The Dog completa il cerchio, restituendo con mezzi semplici e perfetti la lente diafana di una realtà altrimenti irrappresentabile, quella dell’inconscio. L’unico ambiente reale è il desk della reception, una sorta di piccolo pulpito che entra ed esce di scena correndo veloce su un binario, si sposta da destra a sinistra per far posto alle proiezioni, appare e scompare come un sospetto, un’idea, un tormento. La soluzione di non mostrare mai i volti dei protagonisti se non in video trasmette quel senso di realtà fratturata che governa i sogni e i mezzi ricordi; battute brevi e scambi enigmatici procedono senza volto, le espressioni facciali viaggiano in quell’impercettibile differita data dalla videoproiezione, al punto che più di una volta si sospetta che ogni cosa sia dopotutto registrata. Il climax di tensione innescato dalla messinscena non è del tutto supportato dall’epilogo della storia, che si risolve con una scappatoia un po’ vigliacca e dal quale ci si sarebbe aspettati un finale aperto o un’idea all’altezza del soggetto, e bisogna denunciare la sofferenza provocata dai sopratitoli, necessari per chi non conosce la lingua ma trappola di distrazione anche per gli angolofoni. Tuttavia si tratta di uno spettacolo incredibilmente moderno senza bisogno di essere strabiliante nell’uso della tecnologia: i mezzi usati, pochi ed efficienti, sono sempre al servizio della storia, che si spiega così come un pop-up emotivo di grande intelligenza e sperimentazione sui linguaggi. L’Inland Empire (il riferimento a Lynch non sminuisce comunque l’originalità del progetto) creato da imitating the dog è un’esperienza visiva e narrativa di altissimo livello, vortice di fruizione aumentata in cui perdersi diventa una sfida davvero accattivante. Al punto che, al momento degli inchini, si era certi di dover applaudire almeno cinque attori. Ma sono solo quattro. Allora le donne misteriose erano davvero la stessa persona? Colpito e affondato.

Sergio Lo Gatto

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visto il 29 ottobre 2011

Teatro Carignano – Festival Prospettiva 2011 [programma Prospettiva 2011] [stagione 2011/2012 Teatro Stabile di Torino] Torino

Hotel Methuselah
un progetto di imitating the dog e Pete Brooks
scritto e diretto da Andrew Quick e Pete Brooks
scene Laura Hopkins
musiche Neil Boynton
Video editing Simon Wainwright e Seth Honnor
con Morven Macbeth, Simon Wainwright, Richard Malcolm / Dominic Fitch, Anna Wilson-Hall

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

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