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È davvero violento il teatro di Rodrigo García?

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Muerte y reencarnaciòn en un cowboy – Rodrigo García

Il teatro è riflesso di un sogno d’attore, negli occhi di uno spettatore. Si relaziona alla realtà con un moto binario di appartenenza e tradimento, anche quando si articola in una forma documentaria ne delinea tratti di confine con la viscosità dell’interpretazione, misura nell’inganno espresso – artificio – la sua sagomata verità. Non ci aspetteremmo mai, in teatro, d’incontrarci la cronaca diretta. Era da poco terminato Muerte y reencarnación en un cowboy (leggi la recensione) dell’artista ispano-argentino Rodrigo Garcia, quando nella sala del Teatro alle Tese dell’Arsenale un manipolo ristretto di Carabinieri ha fatto la sua comparsa sulla scena, a riaccendere luci e clamori di una scena ormai spenta.

Motivo della visita una segnalazione che i primi – fra molti – spettatori ad uscire dalla sala gremita hanno inoltrato alle autorità di competenza, subito dopo aver visto in scena l’uso di una dozzina di pulcini, insidiati dalle grinfie di un felino predatore. Dubbiosi i pulcini in una teca trasparente, mezzo addormentato e di spalle il loro nemico illusoriamente inserito nello stesso box, ma separato da un vetro divisorio. Il terrore negli occhi di chi s’infuria spinge alla fuga, allo sdegno, alla rilassante, appagante denuncia alle forze dell’ordine. Tutto piuttosto nella norma. Quel che tuttavia colpisce è la tempistica: García fa spettacoli dal 1986 e calca stabilmente le scene italiane da più di dieci anni, questo spettacolo in particolare è stato visto e recensito già lo scorso anno al festival Prospettiva dello Stabile di Torino, quindi le informazioni sul suo arcinoto uso degli animali in scena sono perfettamente preventivabile con un discreto anticipo. E tutt’altro che scandalose. Perché mai allora tanta sorpresa indignazione?

La violenza di García è una messa a nudo della simulazione: dispone in scena gli animali ricreando le dinamiche del loro annientamento, nel nostro mondo così usuale al punto di non conoscerne più i limiti, invece sulla scena quell’impatto feroce colpisce deliberatamente, ma non per compiere violenza, per denunciare la nostra attraverso l’artificio, che del teatro è proprio. Soffre di più, il volatile, in un innocuo giro sul palco o ingabbiato in giro per le fiere di tutto il mondo? Anche la sua famosa scena dell’astice ucciso, quanto ha di diverso da una quieta serata in un ristorante di lusso? Sembra dire, García, che siamo in teatro, che il luogo per svelare questa ipocrisia che del mondo è il peggiore dei mali, non è altro da questo. Mostrare la violenza non è credere in essa. E allora cosa cercano gli spettatori che fuggono o i Carabinieri che accorrono ogni volta sulla scena del crimine senza crimine? Forse, non più che un colpevole all’ipocrisia.

Simone Nebbia

Articolo apparso anche su L’Ottavo Peccato – 41 Biennale di Venezia

Leggi gli altri articoli dalla Biennale Teatro 2011

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7 COMMENTS

  1. Rodrigo Garcia è un genio. Svela in modo anarchico i meccanismi dell’ipocrisia, del potere, dell’asuefazione. Sposta la soglia del “bello” e insegna agli artisti ad avere coraggio.
    Cesar Brie

  2. sono d’accordo con Cesar. Oltretutto, in questo particolare caso, mi ha infastidito veder la gente uscire di sala di corsa nel momento esatto in cui facevano capolino sullo schermo i pulcini, la stessa gente che fa placidamente zapping (televisivo e morale) di fronte a offese molto più gravi e in cui non c’è alcun doppiofondo di plexiglass che tenga.

  3. Gli operatori dell’immaginario sanno svelare le ipocrisie, la violenza, i mali del mondo senza torturare gli animali. Quando vogliono sanno farci capire quello che devono con la potenza della loro creatività. Lo sappiamo già tutti che siamo dei vigliacchi, non è informativo ribadircelo.

  4. Cercano un complice alla tranquillità insipiente, alla doppiezza laida
    di chi un occhio lo dedica allo scandalo
    per l’ (ovvia) aggressività dell’altro,
    l’altro lo chiude per legittimare la propria.

  5. ok, d’accordo più o meno, in linea di principio, con tutto, persino con Mr. Brie e con il post di sergio, però penso, contro sergio, che semmai mi scoccerei non perché la gente che vede di tutto in tv si scoccia giustamente per i poveri pulcini ma perché non si scoccia abbastanza quando guarda la tv. Voglio dire, si da per scontato che dalla tv bisogna sorbirsi tutto mentre una volta tanto che si esce di casa, poniamo per andare a teatro, non possa esprimere il mio basilare diritto alla libertà di scocciarmi se mi si fa vedere una cosa che mi fa impressione o che penso sia cinico mostrarmi? Insomma, persino in tv, se cambiando canale mi imbatto in una cosa scioccante o disgustosa, se mi va cambio canale. Perché nel salotto di casa col televisore devo patire la violenza e in teatro pure, solo perché in teatro è una violenza “critica”, anziché “acritica”? Mi stai comunque facendo del male anche tu, come mediaset, in fondo… dico per dire, penso a voce alta. Ma una difesa troppo “acritica” del diritto degli artisti di far quel che gli pare mi spaventa quasi come una pretesa di censura.

  6. Ciao Daniele.
    Urge che spieghi meglio una mia frase, anzi un mio termine: zapping. Quando scrivo “televisivo e morale” è per non limitare il discorso solo alla televisione. Un po’ perché io la tv non la vedo davvero mai, un po’ perché non voglio ridurmi a criticare la tv, mezzo che nella fattispecie non c’entra niente con il teatro di Garcìa. È più nel concetto di zapping, il mio punto. L’azione del “cambiare canale”, che si sia davanti alla tv o in generale nella realtà che si vive, secondo me è profondamente dannoso. È una sorta di astensionismo che forse dovremmo permetterci sempre meno. Lungi da me far demagogia, voglio anzi tornare a stringere il discorso attorno alla materia specifica di cui parlava il pezzo di Simone. Non sto difendendo Garcìa dicendo che il suo teatro non è violento, o che è violento “criticamente”. Ti direi che forse il punto è che *non è violento gratuitamente*. Il (troppo lungo) quadro iniziale, con le chitarre prese a calci, con il silenzio calpestato dal rumore è un mezzo di contrasto che serve a rendere più evidente il subentrare di un’altra violenza, quella mostrata nella seconda parte dello spettacolo, in cui ci sono i due cowboy che sproloquiano sul senso della vita, sul dio denaro e sul dio sesso. Questa seconda parte è mooooooolto più violenta della prima. I pulcini altro non sono che un ponte strategico tra i due emisferi di violenza: la minaccia. Il fatto che la gente se ne andasse era secondo me programmato, il fatto che i carabinieri fossero lì *per i pulcini* era emblematico. Il cortocircuito creato è proprio intorno al concetto di violenza. Viene riportato alla luce un meccanismo che, in maniera occulta, va avanti nella società civile da troppo tempo. Per come la vedo io, era molto più terribile il discorso tra i due cowboy, molto più violento. E lì l’unica cosa *al sicuro* erano i pulcini e il gatto, chiusi dentro una teca *insonorizzata* (particolare secondo me fondamentale) in cui non poteva succedere nulla e non potevano ascoltare nulla. Allora il quadro si risolve da sé: animali tenuti in gabbia ed esposti nella loro sordità mentre fuori accadono tutti gli abusi. E sono abusi intellettuali, abusi psicologici, i peggiori, quelli che rovinano infanzie.

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