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Balck Tie – Rimini Protokoll per Le vie dei festival

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Comunicazione, documentazione, raccolta, organizzazione e diffusione dei dati per affermare propri particolari punti di vista o testimoniare un’esperienza di vita capace di indurre lo spettatore a interrogarsi sulle problematiche più sensibili della società contemporanea. Così il medium televisivo sembra modellizzare una produzione teatrale che si muove tra “saggi per palcoscenico” (vedi il recente Can We Talk about this? della compagnia DV8) e talk show senza “talk”, in cui personalità individuate nella vita quotidiana si ritrovano ad assumere il ruolo di (non)attori o (non)performer per mettere in forma drammaturgica il proprio reale vissuto.

È il caso della giovane coreana Miriam Jung Min Stein protagonista di Black Tie, nuovo spettacolo della compagnia Rimini Protokoll andato in scena a Roma per Le vie dei Festival.
Adottata negli anni Settanta da una famiglia tedesca e ormai adulta, Miriam decide di andare alla ricerca della proprie origini partendo dai pochissimi indizi disponibili, ovvero un unico documento che, di tutta la vicenda, dà un unico e fantasioso resoconto: “sei stata trovata nel 1977 in una scatola nel Sud della Corea, avvolta in un giornale”. Su una scena completamente spoglia, se non per delle pedane in legno marchiate in rosso con alcuni dei codici del genoma della protagonista, Miriam Jung Min Stein racconta le lente e meticolose investigazioni in cui si è trovata coinvolta negli ultimi anni della sua vita. Con lei solo un musicista – che, sullo sfondo della scena, con computer e chitarra accompagna il suo monologo -, un’altra ragazza coreana – alter ego della protagonista, ovvero quello che sarebbe diventata se rimasta nella propria nazione di origine -,  uno scanner, un proiettore e un data glove, un guanto con sensore ottico utilizzato per far materializzare o spostare le immagini di volta in volta proiettate sullo schermo. Il racconto diviene presto un affastellarsi di dati, di documenti scannerizzati, di fotografie ed immagini archiviate ed estrapolate dalla memoria di un computer, di giornali e documenti storici. Attraverso tale archivio lo sguardo microscopico sul “copione di una vita” si allarga ad una dimensione macroscopica e l’esperienza della protagonista diviene un pretesto per riflettere su adozioni, differenze culturali, contrapposizione tra il me e l’ambiente che lo accoglie.

Il medium televisivo che modellizza questa scena è a sua volta ridicolizzato e cinicamente criticato da proiezioni video naïf che accompagnano continuamente il monologo: un tappeto di fiorellini rosa pastello o verde acido fa da sfondo alle immagini che la (non)performer lascia apparire tramite il suo guanto, macabre quanto trash registrazioni di adozioni di bambini coreani e programmi televisivi della medesima nazione – un Carramba che Sorpresa in versione asiatica – sono presentati come pezzi funzionali per  comprendere le differenze culturali e interrogarsi sul ridicolo immaginario collettivo che avvolge il tema dell’adozione. Allo stesso tempo queste immagini divengono le proiezioni desideranti di una bambina estranea al mondo tedesco in cui si ritrova immersa, o di un’adulta che cerca il suo passato e che vuole a tutti i costi testimoniare tale fallimentare ricerca. Perché, quando ogni speranza di recuperare delle informazioni sulla propria origine sarà persa, a Miriam Jung Min Stein non rimarrà che una soluzione: analizzare il proprio DNA per ricostruire, se non l’immagine, almeno il carattere genetico dei propri genitori. A procedere verso tale analisi saranno due differenti aziende “collezionatrici” di “genoma umano”: la 23andme e la DeCODEme. Testimoniata con le fotografie delle varie fasi della richiesta di analisi (dall’iscrizione via internet al tampone, fino all’arrivo dei risultati, con tanto di costruzione di una pagina internet che racchiude tutti i dati del proprio genoma) l’analisi del proprio DNA porterà a due differenti risultati. Stabilire quale sia il risultato corretto è impossibile. La propria biografia, il proprio passato non è altro che un cumulo d’informazioni, di dati archiviati, di codici genetici utili solo a prevedere possibili future malattie. Questo è l’unico dato che Miriam recupera dalla sua storia, questo l’unico ricordo dei suoi genitori, l’unica storia che può raccontare: una percentuale trasformata ancora una volta in puro dato mediatico.

Matteo Antonaci

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