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Atlante II: Palazzi e Cordelli, la critica e le onde sonore

440 Hz

Nella fisica il fenomeno della risonanza acustica è l’amplificazione delle onde sonore, quando cioè un impulso da una sorgente si sposta in un luogo fisico e, dall’aria e dalla geometria spaziale, trae un’onda di ritorno che moltiplica quell’impulso. Invece nel dibattito culturale la risonanza è una sorta di strano fenomeno di specularità, ritrasmissione delle onde di pensiero che riflettono concetti attorno a un tema specifico su cui si ragiona a intervalli – oscillazioni – generatori proprio di quel suono, dell’espressione. Non è allora così strano che in un periodo simile, probabilmente senza coscienza il secondo del primo almeno, due fra i critici nazionali di maggior rilievo abbiano espresso sullo stesso tema un’eco di pensiero: subito dopo B.Motion, a Bassano del Grappa, grande sorpresa ha suscitato un articolo di Renato Palazzi, apparso su Myword del 12 settembre 2011, in cui egli s’interrogava su un certo tipo di rapporto fra il pubblico e la scena; di pochi giorni fa invece una strana risonanza d’intenti in Franco Cordelli, sul Corriere della Sera del 24 settembre 2011, riflettendo sugli ultimi giorni di Short Theatre e lanciando uno sguardo proprio all’educazione del pubblico.

Nell’articolo di Palazzi il casus belli è determinato dal debutto assoluto, per il gruppo pugliese Fibre Parallele, di quel Duramadre (leggi la recensione) che nella stretta sala del Garage Nardini era a suo dire osteggiato, reso quasi in ridicolo dall’atteggiamento maleducato di un pubblico che, indispettito da uno spettacolo non ritenuto all’altezza del loro investimento di tempo ed economie, rumoreggiava fuggendo dalla sala e testimoniando così la mancata adesione a ciò che accadeva sulla scena. A proposito di una propria difficoltà di riflessione sulla materia proposta, Palazzi adduce a motivazione un calo di tensione degli attori, definendo che “questo calo di tensione è stato, se non provocato, almeno favorito dall’atteggiamento di un pubblico irrequieto e annoiato, che ha fatto di tutto per manifestare la propria indifferenza. E perché anche l’osservatore più obiettivo, in quel clima, faticava a mantenere un minimo di attenzione”.

Franco Cordelli invece si misura con T.E.L., ultimo lavoro di Fanny & Alexander, che opera una dislocazione spaziale del meccanismo teatrale (lo stesso spettacolo in contemporanea in due diversi teatri collegati radiofonicamente), ma che, a mio vedere, oltre tale mostra di vincoli meccanici non genera corrispondenza, impone e non propone una visione artistica e del mondo fredda e formale, una dissociazione dall’esistente in contemplazione dei meccanismi che lo regolano, un passo ancora verso la dislocazione – questa sì – tra lo spettacolo teatrale e il pubblico che, incapace di rintracciarsi uomo sulla scena di fronte, deciderà con minore timore della rinuncia di non intervenire nemmeno. A questo vago sentore di ingenerosità che sente giungere rispetto alla materia vista sulla scena, Cordelli compone questo pensiero: “Impossibile riassumere. Bisogna leggere. Credo che leggere sia, per lo spettatore, parte della fruizione dello spettacolo. Intendo: è vero che se non si sapesse nulla di Lawrence, o non si leggesse il programma, poco si capirebbe. Ma noi leggiamo e capiamo perché Cavalcoli e Lagani fanno ciò che fanno”.

Nel tono di entrambi i critici maturi è facile scorgere una certa didattica di comportamento dello spettatore, che curiosamente per entrambi va a giustificare qualche difetto di percezione: Palazzi infastidito dal disagio del pubblico (peraltro effettivo, ma non imputabile credo così ingenuamente) ne chiama il silenzio al fine della sua attenzione, ma io credo che il dialogo sia dell’arte con gli ambienti, il critico ne attraversa il contatto e se ne fa testimone silente, ma senza spostare su di sé quell’attenzione; Cordelli invece consiglia forse una preparazione culturale al teatro come necessaria alla percezione dello stesso, ignorando non so perché che il teatro sia tutt’altro, forse il suo contrario. Risuonano, dunque, gli impulsi dell’uno e dell’altro, a rintracciare per diverse vie lo stesso difetto di educazione all’ascolto, ma l’accusa generalizzata o un didattismo che giustifichi la noia dello spettatore ci sembrano davvero un buon esempio perché il pubblico «raggiunga» le nostre vette di percezione? Io non credo e risuono, da qui, la mia nota stonata.

Simone Nebbia

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