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Il teatro ha chiesto spazio, ora è tempo di pretenderlo

Il teatro chiede spazio, inutile girarci intorno con cappelli introduttivi o chissà che elemento retorico: questa città di Roma – come questo paese – vive una condizione asfittica, maleodorante del malumore che deriva da troppi anni di stantia assenza dalla vita culturale, dalla rilevanza sempre sottoesposta e così poco alimentata, dalla brutale offensiva della delegittimazione e l’annientamento del valore: ma bisogna cambiare il segno di questa città, perché noi esistiamo da avanguardia della coscienza civile, noi siamo quelli del “teatro inferiore” che non ama e non aspira al superiore, abbiamo una coscienza e un diritto alla marginale esperienza di differire, essere in un altro modo; c’è un’ombra che deriva da una chiusura nel mutismo inerte, una ferita autoinferta che ha smesso anche di bruciare ma che bisogna ravvivare del sangue che – se sgorga – vuol dire che da qualche parte scorre: per questo le tante iniziative di protesta, spontanee come fiotti d’acqua di falda zampillanti dai terreni, forti e legittime ma quanto scollegate, in rapporti a volte diffidenti, ma la lontananza della provenienza e dei caratteri non ha senso di esistere quando l’obiettivo è comune e necessario: sabato 12 marzo 2011 questa rivista ha chiamato ad incontrarsi gli spazi romani per intervenire e conoscersi, ma anche per entrare a contatto con realtà non precisamente legate al panorama indipendente, ma direttamente connesse alla gestione della città, per capire quanta sia la lontananza dei percorsi, quanta la condivisione; l’intervento dei piccoli spazi privati e sociali al fianco dello Stabile Teatro di Roma, nella persona del suo nuovo presidente Franco Scaglia, dell’AGIS di Pietro Longhi, della Fondazione Romaeuropa con Stefania Logiudice, come tanti altri, è stato un passo decisivo verso la grande scommessa di un rinnovato dialogo.

La sorpresa di un incontro così acceso ha posto sullo stesso piano, agli stessi tavoli, persone in rappresentanza di diversi settori economicamente e strutturalmente differenti, ha lasciato accadere quanto voleva e poteva accadere, ha registrato proposte concrete che superassero il malcontento e la delusione di tanti anni d’emarginazione e prosciugamento delle economie: la richiesta di bandi di gestione triennali per compagnie romane legati ai Teatri di Cintura; la richiesta per lo Stabile di avere al Teatro India una sala prove per tutti, che sia aperta alla città come nel progetto d’origine di quel teatro diventato altro da sé; la richiesta di giovani osservatori coadiuvanti la direzione artistica dello Stabile per saggiare e valutare quanto c’è nell’ambiente del sottobosco cui ha attinto in passato e che vorrebbe tornare ad esistere con padronanza di sé, invece mai come ora vessato e dimenticato; l’urgenza di muovere e muoversi per strappare il Teatro Valle ai disegni diabolici di chi è senza coscienza culturale; infine l’altra grande esigenza che fa tutti colpevoli e cioè l’allontanarsi progressivo del pubblico dalle sale, ormai determinante, cui dover fare fronte a partire da una inchiesta lucida sullo stato delle cose e le dimensioni dello scollamento.

Dunque uno straordinario spirito di condivisione è uscito da quella come altre riunioni, per questo mi sento, ci sentiamo di rilanciare: quel “noi” appartiene all’arte quanto all’affiancamento critico, la partecipazione a un ambiente è ormai determinante e ineludibile anche senza dimenticare il giudizio. Per questo possiamo dire noi parlando di un movimento da realizzare, da rinnovare, accentrare le forze allargando il consenso, oltre i comitati i coordinamenti le iniziative individuali i comunicati di entità o di piccoli gruppi: è il momento di dimenticare le differenze e le antipatie, perché un potere pretende di ragionare solo con chi dimostra di essere una forza a suo modo omogenea nell’eterogeneità, perché sia chiaro che c’è da combattere non per l’opportunità in sé delle richieste, ma per far sì che quella opportunità possa esistere per tutti, solo così possiamo recuperare la forza propulsiva dell’unico vero elemento comune: il teatro, l’arte, la bellezza. Ora rilanciamo, noi e un intero ambiente, per dire che c’è da muovere e stimolare le qualità sopite, da andare a riprendersi un’autonomia negata, un valore annientato; per questo bisognerà essere tutti, e uniti, per questo le proteste dovranno avere seguito e coesione, rinnovare la dinamicità di una posizione alternativa, trasversale, che traduce dalla scena alla realtà lo stesso spirito di coscienza civile, bloccare una deriva e tracciare la linea retta che delimita con forza la differenza tra quella che è una navigazione fiera e quello ch’è, invece, nient’altro che un naufragio dimesso.

Simone Nebbia

guarda i video dell’incontro su E-Theatre:
1° parte
2° parte

Vai all’osservatorio critico di Ubu Rex 2

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