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HomeArticoliUna preghiera polemica su Giorni Felici di Bob Wilson

Una preghiera polemica su Giorni Felici di Bob Wilson

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Giorni felici. I giorni sono felici per alcuni, in questo mondo. Non per tanti altri. I giorni sono felici quando tutto funziona, quando gira bene la vita tutta attorno, i giorni felici sono quelli di chi ce la fa sempre, di chi conosce e dimostra la conoscenza, di chi si nutre di cultura, la capisce, ne “mastica”, ne sa parlare. I giorni sono felici per l’elite, per l’alta società. I giorni non sono così felici per l’altra, società, per chi non ha questa fortuna, e nel mondo sono davvero tanti, troppi in tutto il nostro pianeta abitato che non avrebbero tratto nulla dallo spettacolo il cui titolo ripeto da qualche riga, Giorni Felici, portato in scena da Bob Wilson per testo di Beckett e straordinaria interpretazione di Adriana Asti.

Quest’epoca contemporanea vive una emergenza culturale indegna della sua avanguardia, della sua prossimità al futuro, del suo divenire; nel mondo si vive l’emarginazione dalla qualità della vita, sotto la soglia di povertà, sotto la soglia di conoscenza, quella di partecipazione alla vita sociale; l’arte – di cui il teatro è forma tra le più pure – è il veicolo di trasmissione che annienti le differenze di classe, di ricchezza, di sapere, o dovrebbe essere: come può, mi dico, uno come me chiamare teatro qualcosa che invece resta sul palco, è fascinazione per attori e intellettuali ma non parla alla gente, non ammette comunicazione fuori dalla propria lingua, dal proprio codice di linguaggio e impatto? Io non la chiamo arte ma esercizio, io chiamo tutto questo filologia, fallita contemplazione neoclassicista, che in quest’epoca troppo facilmente rischia di essere appellata: neoclassista. Perché questo è il problema: prendiamo un intellettuale e un idraulico, dico come mi viene, senza medietà: se io ho un tubo rotto è l’idraulico che mi viene incontro e lo ripara, svolge la funzione cui è destinato, con i suoi mezzi riesce ad ovviare a una mia deficienza, interviene sul gap immediatamente, risolve unendo me e lui nella piena comunità di un sodalizio umano; quando l’esigenza, invece di essere idrica e tecnica, è culturale, l’emergenza cui tutti fanno riferimento e di cui si va sparlando a sproposito, allora il discorso cambia e devo essere io, l’intellettuale, a trovare mezzi per riparare il suo tubo che perde, non posso andare lì con il mio e solo mio linguaggio e sperare che questo basti, lasciare nelle sue mani attrezzi e frasi fatte, e sperare che lui affronti da solo la perdita dell’acqua, della comprensione, della coscienza civile di uomo nel mondo.

L’arte parla all’uomo, dunque. Ma noi che ne facciamo uso, siamo sicuri che all’uomo stiamo parlando? Siamo sicuri che questo è il metodo per rimarginare la ferita culturale, che l’ho sentita dire così tanto da non ricordare più che significa? Il valore di quello spettacolo costruito da un intellettuale per i suoi simili, oltre a Beckett che conosciamo, oltre alla brava Adriana Asti, oltre alla regia di luci splendide: come incide e su chi incide nell’emergenza? Mio padre non l’ho portato, ma avrebbe dormito lui che non conosce Beckett e non lo avrebbe conosciuto così, sarebbe rimasto lontano dalla fascinazione, come tutti quelli che dentro quella immensa sala non sono entrati, non entreranno mai, che scelgono la tv perché è il mezzo che ha capito come far diventare la sua lingua – populista – intimamente popolare, l’ha capito e ci sta fottendo, letteralmente, anche per colpa della distruzione espressiva cui mi tocca assistere. Via le parrucche, parliamo alla gente! Noi siamo traduttori, non siamo eletti, non siamo eroi: siamo portatori d’acqua e di armi altrui, non passeremo alla storia del mondo in questo modo, la storia passerà per noi se sapremo ascoltare il suo battito, altrimenti passeremo, e basta, senza lasciare alcuna traccia.

Simone Nebbia

in scena dal 15 al 24 ottobre 2010
Teatro Valle – vai al programma 2010/2011 del Teatro Valle

Torna a Paso doble su Giorni Felici, due spunti sullo spettacolo di Bob Wilson visto al Teatro Valle per leggere l’altro articolo

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

7 COMMENTS

  1. vidi entrambi gli spettacoli (e ne scrissi) al festival di Spoleto 2009.
    Capisco perfettamente il punto di vista di Simone (come spesso accade) e sono d’accordo con lui. Devo essere sincero nel dire che in mezzo a un festival vecchio e pomposo come ormai è diventato quello di Spoleto, il dittico di Wilson ci stava a pennello. Calligrafico, freddo, altero. Come per certi versi era la scrittura di Beckett. Credo anche io che niente del lavoro enorme svolto da Wilson su queste due drammaturgie avesse a che fare con un pubblico popolare come vorremmo tutti che il Valle cominciasse a raccogliere. Queste ultime due stagioni del Valle (e relativi sforzi del “fu” Eti) ci hanno dimostrato che un avvicinamento al pubblico è possibile, basta sapersi reinventare in tutto. Il Valle lo ha fatto cambiando il modo di fare programmazione, volgendosi molto alla didattica, in un certo senso all’archivismo.
    Forse in quest’ottica va visto l’inserimento del dittico Beckett/Wilson. O forse, una volta di più, avranno tutti ceduto al compromesso odioso del teatro che va di moda. Va. Di moda non saprei. Ma di certo in questo modo “va”. Da un’altra parte.

  2. Beh, caro Simone, non è la prima volta che ti sento abbandonato a queste nostalgie per un teatro che fu e che non è più almeno a partire dalla stagione del simbolismo, quindi fine 800. Da lì il teatro ha smesso di essere “popolare” ed è diventato sempre più elitario, com’è elitaria qualsiasi forma di arte contemporanea. E tutto sommato va bene così: la deficienza su cui interviene l’idraulico è semplice, terra terra, ma la deficienza culturale è complessa e non ha risposte univoche né formalizzabili in uno schema del tipo “quì l’acqua entra e quì esce”. La prima volta che in vita mia ho visto un lavoro di Beckett non c’ho capito assolutamente nulla ma guarda caso è stato solo da lì che ho voluto fare e studiare teatro (e ti assicuro che all’epoca non ero un intellettuale… ammesso che lo sia ora), ed è come dire che proprio l’impermeabilità alla comprensione immediata che Beckett ha (e non solo lui) apre universi prima sconosciuti e insegna alle persone che “ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la tua filosofia”. Magari una volta ne parliamo de visu, ciao.
    Fabio

  3. Ma dire, “siamo portatori d’acqua e di armi altrui”, non è un’affermazione altrettanto elitaria? Non sarebbe più corretto affermare che siamo lavoratori, come lavoratori sono gli idraulici? Certo, la differenza è più sottile non solo in termini pratici ma anche teorici. Chi e perchè ha bisogno della cultura?
    Mi chiedo se piuttosto che “portare mio padre” o qualsivoglia persona a vedere uno spettacolo non sia più corretto lottare per “mettere nelle condizioni di”. E’ la scelta a fare la differenza. In un discorso talmente complesso da toccare non solo l’ambito culturale ma anche quello dell’istruzione. O meglio tutti quei campi che l’Italia sta letteralmente distruggendo. Siamo nelle condizioni di poter scegliere percorsi non omologati e omolaganti? Stiamo insegnando i metodi per scegliere questi percorsi e, conseguentemente, per valutarli? Con quale criterio affermiamo che le “parrucche” debbano assolutamente non piacere? Con quale decidiamo se un artista sta o non sta parlando alla gente? A quale gente ci stiamo riferendo? Per parlare alla gente anche il teatro deve omologarsi al liguaggio televisivo, il mezzo che ha capito “come far diventare la sua lingua populista intimamente popolare”? Chi sceglie cosa deve emozionare e cosa non deve emozionare? Siamo sicuri che tutti coloro a cui lo spettacolo di Wilson è piaciuto siano attori o operatori o appassionati di teatro? E quelli che applaudono sepliciemente perchè hanno la possibilità di vedere/rivedere una grande attrice? E quelli che applaudono perchè non hanno mai visto una scenografia così mastodontica? Perchè non hanno mai visto usare le luci come le usa Wilson? Perchè non hanno mai avuto a che fare con questo tipo di teatro? In che girone devono essere richiusi costoro?
    E ancora: bisogna affermarsi per passare alla storia o alla storia si passa per processi del tutto esterni alla volontà del presente? In fondo, non è sempre stata elitaria la storia della cultura? Quanti conoscevano e a quanti piaceva Caravaggio all’inizio della sua carriera? E gli impressionisti? E Antoine, Mejerchol’d, Stanislavskij, Craig, Artaud, Grotowski? La differenza non stava, forse, nella possibilità di interessarsi a qualcosa di profondamente diverso? Nella capacità di interessarsi anche al brutto? Di valutare con la propria incondizionata e democratica coscienza?
    La cultura salva l’umanità?
    Prima di toglierci le parrucche e di mostrare un cranio sfondato e vuoto come quello di Willie, depositiamo le armi di un’inutile crociata, le armi di una retorica inconsistente, spesso superficialmente sinistroide. Se anche il teatro è un lavoro allora parliamo della prassi di questo lavoro. Di tecnica, di estetica. Diffondiamo i materiali per comprendere, i mezzi, i metri con cui misurare e facciamolo con un linguaggio comprensibile ed efficace. E’ questa l’unica arma che abbiamo a disposizione, l’unica che possiamo offrire alla gente per renderla cosciente della propria capacità di scelta e giudizio.
    Se mio padre AVESSE DECISO di venire con me a teatro, qualunque sarebbe stata la sua reazione, non solo avrebbe sentito parlare di Beckett, non solo sarebbe stato stimolato a conoscere questo autore, ma, al di fuori di qualunque espressione di giudizio, avrebbe conosciuto anche Robert “Bob” Wilson. Che, piaccia o non piaccia, della storia del teatro fa già parte.

  4. Oh bene, una polemica ha bisogno di interlocutori. E io ne ho.

    A Sergio Lo Gatto dico che “calligrafico, freddo, altero”. Avrei voluto scriverlo io. Letterale.

    A Fabio M. Franceschelli e, d’insieme, a Karwaiwong: io non amo il teatro che fu, come si guardano le ruote ai carri dei cavalli sulle strade piene di polvere, quando partono e si portano via la vita che ci abita dentro, che abitava qui e ora non più, a me preme il teatro che è: io non ammetto passato né futuro, il divenire m’ha insegnato il solo presente e ne sconto il passo affannoso, lo sento e devo darne misura, come in questo articolo. Chiaro che trattandosi di Beckett si parla da troppo anni della sua difficile rappresentabilità, ma la complessità del reale forse oggi deve passare altrove, “per un altro tubo” diciamo: il lavorio sulla sensibilità ha colto te Fabio, ma per uno come te ce ne sono cento la cui impermeabilità non è un difetto didattico, ma proprio la presenza in un mondo che ignora le nostre beghe sopra l’arte. Ignora proprio lo storiografia attorno all’arte e ne vive opportunamente al massimo l’esperienza. Per fortuna. Il teatro come forma d’arte più pura, non ha come fine quello di convogliare quell’esperienza dal palco alla platea? Se non è così: di che diavolo mi sto occupando io in questi anni? Dimmelo che ho sbagliato tutto…
    Io non tanto all’idraulico come categoria, ma proprio al mondo inteso senza una categoria invito a rivolgere l’attenzione. Non credo sia opportuno chiuderci nei nostri teatri a “farci” di mille Beckett quando tutti, pur vantando di conoscere la finalità dell’arte, ignoriamo la catastrofe abbattuta sulla maggioranza del genere umano. In quel senso ho usato il termine “elitario”. Escludente della componente di mondo più estesa. Non è il tempo credo, ora, di lasciar fare alla pur grandiosa testualità: bisogna “andare verso”, quella didattica delle masse di cui parla Karwaiwong, non è e non può essere una mostra di maestria, ma un sforzo tangibile in una direzione che il lavoro intellettuale disconosce da troppo tempo.
    Più nello specifico delle domande che quest’ultimo mi rivolge, proverò a rispondere a qualcuna, tra le tante: io riconosco nell’arte una vitalità che è prima e del tutto umana, la correttezza che mi si richiede di affermazione è esattamente quello che ho detto: il nostro “portare acqua” è il nostro lavoro, come quello degli altri: il mio articolo voleva difendere proprio questo, trovo sorprendente arrivi l’informazione contraria, mi chiedo in che modo sia accaduto: dov’è qui l’elite? Quella cosa che la cultura come categoria sa fare io la ignoro, a me la cultura non interessa in questi termini, mi interessa il mondo, mi interessa la gente che lo vive. Infatti la mia domanda è proprio in relazione a quel “mettere in condizione di”, che invece mi viene imputato, anche qui, al contrario. Sorprendente anche ciò. Ma tant’è, rispondo. Non chiedo di certo di omologare il linguaggio teatrale a quello televisivo, ci mancherebbe, e non sono Baricco, io parlo di quell’atteggiamento che tiene il mondo lontano dalla sua rappresentazione, cosa che invece con mezzi e modi tutti suoi, la tv ha già capito e ne sfrutta ogni spazio; quanto al ragionamento sulle categorie di spettatore: mai ho voluto definire chi è spettatore e chi no, che me ne importa, io non parlo di teatro io parlo di mondo, a me del teatro non interessa nulla, non mi interessa il motivo di un applauso ma se quello che ho visto ha la forza di una funzione sociale, se non lo fa – ed è opinione mia e solo mia non comunitaria o categoriale – per me io non sono lì, non mi interessa, come odio la distruzione inoperosa di una stortura d’avanguardia, odio l’arte per l’arte, fine al compiacimento, al godimento puro, è una cosa morta da D’Annunzio in poi: desidero meno pulizia e una vitalità che, pure sporca, sia spirito d’ingaggio e di messa in discussione. Della fascinazione mi occupo con relativa lontananza, a meno che non svolga quella funzione per altre vie, ma in quest’epoca mi sembrerebbe di chiedere troppo. Dunque capirai perché a me, della “storia del teatro” di cui Wilson fa di diritto parte, non importa quasi niente: a me importa della storia degli uomini, in questo riconosco il mio lavoro.

  5. “desidero meno pulizia e una vitalità che, pure sporca, sia spirito d’ingaggio e di messa in discussione”… su questa frase con me sfondi una porta apertissima.
    Per il resto, Beckett è un classico e se seguo il tuo discorso mi viene da pensare che tutto ciò che non sia strettamente contemporaneo non ha più alcun motivo di essere messo in scena. Ho portato (se non mi sbaglio) il tuo discorso alle estreme conclusioni. Riesumare i classici, ormai irrelati, porta il teatro in direzione (morta) della lirica. Giusto? È un paradosso ma potrei anche essere d’accordo.
    Però la storia del teatro è importante perché la carica di sovversione che ha avuto Beckett ai suoi tempi va proprio nella direzione da te prediletta, e se anche il buon Samuele oggi non sconvolge più niente e nessuno (affermazione comunque discutibile) resta il fatto che senza Beckett non avremmo avuto ad esempio Pinter, uno che le coscienze sa come scuoterle, e non avremmo avuto S. Kane, Mamet, Copi… e in ultimo non ci sarei stato io che anche se non conto un cazzo appartengo comunque al mondo, e se un testo teatrale messo in scena fa venire voglia ad una sola persona di fare qualcosa per cambiarlo quel mondo, allora quel testo teatrale, quello spettacolo, ha raggiunto la sua funzione sociale.

  6. Ecco Fabio, è un paradosso, siamo d’accordo.
    Io mi riferisco in maniera più netta e esclusiva a un’altra questione, uso a pretesto la fattibilità di Beckett e il suo valore, che ci mancherebbe voglia io metterlo in discussione. Io mi voglio interrogare, e invito, sull’opportunità oggi di avere un altro Beckett fatto ad arte, con perizia e rigore estetico, fatto da Wilson con un esborso produttivo enorme. Questo vale per Wilson come per tanti, non è un posizione così puntuta la mia. Si tratta di domandarsi perchè quella fascinazione, già così chiaramente viva per tanti Beckett fatti fino ad oggi, come fu per te, chiami a questa necessità finanziaria, quando invece sono a casa quegli autori che potrebbero finalmente, come è giusto che sia, rinnovare, sconfiggere, progredire questa fantastica storia teatrale. Tarantino se ne sta a fare più o meno la fame da tanti anni, tanto per fare un nome. I registi che hanno accesso alle finanze, invece, mettono in scena l’ennesimo perfetto Beckett…

    Quanto al fatto che tu non conti, mi sembra di poter dire che non è così. Da testimone, spettatore che più volte di te ha scritto.

  7. ok, messa così mi sembra la tua una considerazione assolutamente condivisibile.
    In quanto al mio “non conto un cazzo”, non era né una lamentela personale né un piagnisteo in cerca di consolazione, ma figurati 🙂 Era solo una locuzione per avvalorare la mia idea che oggi come oggi un testo – qualunque testo – che fa venire voglia ad una sola persona, una qualsiasi persona a prescindere che sia colta o ignorante, che sia famosa o sconosciuta, che sia teatrante o venditore ambulante… che gli fa venire voglia di studiare, di approfondire o addirittura di dedicare la sua vita o parte della sua vita al teatro, allora quel testo è ancora un testo “vivo”, un testo che vale la pena di essere messo in scena. Non è per nulla scontato che questo accada nel teatro contemporaneo.
    Ciao e buon lavoro

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